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La vera India, l’assapori attraverso un viaggio in treno

Il primo treno su cui ho viaggiato in India partiva di sera ed erano previste 27 ore di tratta. Ce ne mise 39.

Raggiunsi la stazione ferroviaria di Tiruvannamalai alle 19:30, due ore prima che il treno partiva. Credo di essere stata l’unica persona in tutto il territorio indiano in anticipo. La puntualità è un’abitudine sconosciuta in India.

Un consiglio: se qualcuno in India ti dice di appuntarti un orario, ricordati di chiedere sempre di quale giorno.

A notte ormai calata, la stazione era abitata da cani randagi e da uomini aggrovigliati su sé stessi per non tremare dal freddo, accovacciati per terra coperti da stracci.

Mi misi anche io per terra, su un pavimento freddo e sporco; la puzza di urina era molto forte, ma ormai anche il mio olfatto si era abituato a questi odori nauseanti.

Il problema era sempre il solito: le scritte erano per me come geroglifici. Mi alzai per chiedere dove potevo trovare il treno diretto a Nuova Delhi: ce l’avevo segnato su un foglietto stampato con le vecchie macchine da scrivere, lasciatomi dalla biglietteria all’ingresso.

Nella stazione un signore con un grande sacco di plastica raccoglieva dei rifiuti, accertandosi prima che non ci fosse niente di commestibile all’interno.

Un altro uomo defecava sulle rotaie mostrando il suo didietro, molto più bianco rispetto a ogni altra parte del corpo: fu li che imparai che anche gli indiani si abbronzavano.

Un signore gridava ripetutamente la parola samosa tenendo tra le mani una grande borsa di plastica nera. I samosa sono una prelibatezza indiana e capii che più la persona che li vendeva trasmetteva un senso di sporcizia, più i samosa erano saporiti.

Il treno si avvicinò molto lentamente, lo credevo più malridotto e sul suo fianco si leggevano ancora delle scritte.

Con lo zaino sulle spalle mi incamminai verso la carrozza numero 7.

Una volta sul mezzo, notai che le carrozze erano immerse nel buio più totale. Gli indiani ci vedevano lo stesso, io, invece, con gli occhi occidentali e compromessi dalle luci blu, riuscivo a riconoscere le forme solo grazie alla torcia del mio telefono.

Quando le luci finalmente si accesero, vidi la struttura in tutta la sua interezza. Mi sembrava la cella di un manicomio. C’erano delle catene che sorreggevano alcune brande semi distrutte e grate sui finestrini e sul soffitto. Le pareti erano di un materiale simile al truciolato di legno, ricoperto da una resina liscia.

Nella cabina assegnatami, in uno spazio di tre metri quadrati c’erano quattro posti: due in basso e due in alto. Il mio era posizionato nella parte superiore. Erano brande, più che poltrone.

Appoggiai il mio zaino sulla branda superiore e, con l’aiuto di uno scalino, mi misi nella mia cuccetta: era soffice e confortevole.

Poco alla volta le persone si sistemarono al proprio posto.

Con me c’erano tre uomini indiani: uno aveva l’aria da cittadino dell’Est Europa, ma con la carnagione scura; un altro aveva il ventre molto gonfio e un giubbotto imbottito; l’ultimo era un classico indiano con i capelli corti e senza baffi.

il treno si mise in moto e iniziò per me un altro viaggio della speranza; un viaggio all’interno del viaggio, su uno dei mezzi più affascinanti per un nomade.

La notte era cullata dal suono del treno e dalle forti scosse che davano l’impressione di uscire dalle rotaie. Ciò nonostante riuscii ad addormentarmi, ma solo fino al momento in cui mi sentii sbatacchiare e venni svegliato ferocemente da una donna.

Ero sdraiato sulla mia branda, che si trovava all’altezza del

volto degli altri passeggeri, e lei mi urlò contro svariate volte la parola ‘Americano’. Ancora mezzo addormentato, non riuscii a capire cosa voleva: sentivo il suo alito pesante e le sue tante collane e bracciali picchiettare tra di loro. Aveva un occhio di vetro che brillava e i suoi denti erano marci come il suo fiato. Il ragazzo dai tratti est-europei (con i suoi baffi e la tuta da ginnastica) si alzò in piedi, prese di forza la donna e la allontanò.

La mattina seguente mi svegliai all’alba; i primi raggi solari entrarono dal finestrino e riscaldarono la carrozza molto fredda e umida. Il signore sotto di me era già sveglio; stava bevendo un chai molto caldo e dal suo bicchiere di plastica si alzavano verso di me delle lente e profonde onde di fumo.

Poco dopo si svegliò anche il mio baffuto salvatore, che di scatto si alzò dalla

branda e si sgranchì la schiena.

Il treno continuò a macinare chilometri, attraversammo una zona desertica, le montagne che si intravedevano dalla finestra erano prive di vegetazione e si alternavano piccoli villaggi semi abbandonati costruiti con paglia, terra e sterco di vacca.

Il paesaggio era molto secco, mi faceva venire sete solo a guardarlo.

Un signore passò con dei samosa e dei bicchieri di chai.

Mentre mangiavo i miei fagottini di verdura, il ragazzo seduto sulla branda di fronte alla mia mi regalò un sorriso.

Anche lui mangiava i samosa e mi riferì ( a gesti) che erano molto buoni. sorrisi, provai a interagire e iniziai a parlare in inglese.

Il signore, purtroppo, parlava solo indù e la conversazione continuò a singhiozzi:

«New Delhi?»

«Yes, New Delhi, before Chennai, Auroville,

Pondicherry, Tiruvannamalai, now New Delhi!»

«Good? Yes? Good?» continuò a ripetere guardandomi

fisso e scuotendo la testa.

«Sì! Good, good; before Myanmar, Thailand, Cambodia,

Vietnam, Laos, Malesia, Indonesia, Australia.»

«Wooow Australia, and good good Australia? Yes?» mi

chiese scuotendo la testa.

«Yes! All good!»

Mentre affrontammo questa intensa conversazione fitta di parole, gli altri due uomini sotto di noi ci guardavano. Anzi, guardavano solo me emettendo uno strano verso con la bocca chiusa, ovviamente sempre scuotendo la testa.

I tre erano molto curiosi e seguivano ogni mio piccolo movimento. Quando il nostro sguardo si incrociava, mi rispondevano sempre con un tenero sorriso. Emanavano molta dolcezza e molta tranquillità e dopo l’episodio di quella notte con il mio salvataggio da parte di uno di loro non avevo nessun dubbio: ero al sicuro.

Nell’arco delle giornate il treno si fermò più volte. Le persone che vivevano nei pressi della fermata ne approfittavano per salire e provare a vendere cianfrusaglie o cibo fritto e molto saporito. Ma, oltre a loro, altre anime entravano per chiedere la carità. Molti erano bambini, scalzi, in pigiami completamente a brandelli, e chiedevano qualche rupia porgendo la mano. Nessuno li considerava. Questi bimbi salendo sul treno si ritrovavano in un mondo a loro lontano e superiore, osservavano i grandi e grossi uomini indifferenti alle loro parole. I loro occhi erano lucidi e arrossati dal pianto disperato di una notte intera.

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Quando uno di questi bambini mi si avvicinò, mi tese la sua mano per porgergli dei soldi. Mi guardava come se avesse visto un alieno, scese dal treno e fuggì nascondendosi tra gli arbusti secchi.

Un altro bambino non riusciva addirittura a camminare e trascinava il suo corpo snello sul pavimento del treno, lasciando una scia pulita alle sue spalle. Picchiettava sulle brande un bicchiere di latta chiedendo l’attenzione dei passeggeri, con la speranza di sentire il suono delle rupie che cadevano nel bicchiere, un suono che per molti potrà essere insignificante, ma che per quel bambino era gioia.

In quel tragitto sul treno, durato 37 ore, compresi cosa voleva dire vedere la vera India attraverso un viaggio in treno, assaporarla in tutte le sue forme nascoste negli angoli sperduti. Il suono dell’India era nel bicchiere di latta picchiettato sulla branda; i suoi colori erano quelli della pelle di quelle povere anime; il suo sapore era dentro ogni chai e samosa. Ed è incredibile: ogni volta è un’esperienza diversa. Quando sorseggi un chai senti l’aroma della vera India, rivedi il sorriso dolce e pacifico delle sue anime e senti sulla pelle il caldo quasi bollente del suo terreno.

Il chai è il sangue dell’India, scorre in ogni parte del suo territorio donando vita agli esseri umani che la abitano e che sorseggiano questa bevanda tra vacche curiose, stracci e carrozze di treni malridotti.

Il chai cambia di luogo in luogo; l’acqua con cui è prodotto scorre tra le rocce sacre contaminate dall’urina dei Sadhu e dalle ceneri umane poi gettate nei fiumi. In ogni luogo, il chai ha un sapore differente.

Mi trovai così a trascorrere tre notti e quasi tre giorni su questo treno. L’odore dei nostri corpi si era ormai mescolato. Sguardi incrociati, samosa e chai condivisi, albe e tramonti assaporati insieme: ecco il tesoro nascosto dentro questi mostri di latta arrugginiti messi in moto dall’energia di anime libere dalla fretta.

Fu davvero un viaggio della speranza che mi fece capire il valore di vivere il momento senza preoccuparsi di quando giungerà la fine.

Una sorta di esercizio pratico per dominare la pazienza e per godersi il cuore di questa terra sacra.

Questo testo è stato ripreso dal mio libro La strada verso casa, un libro che racconta un viaggio attraverso L’Asia e le sue meravigliose culture. Un libro che racconta la storia di un comune ragazzo alla ricerca di risposte sulla nascita, sulla vita e sulla morte. Perché le domande sono tante e sono comuni a tutti noi.


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