Un po’ diversa dalle interviste che ho avuto il piacere di scrivere, questa è molto intima. Parla di Mattia: un ragazzo che ha iniziato a viaggiare per affrontare le proprie fragilità, diventando padre di sé stesso, prendendosi cura della sua parte più vulnerabile, quella dentro ognuno di noi: il nostro bambino interiore.
Ho conosciuto Mattia durante una giornata di apertura di un ecovillaggio e sebbene non avemmo il tempo di conoscerci più di tanto, durante un cerchio di condivisione disse una cosa che mi toccò nel profondo. “Per la prima volta mi sono sentito ascoltato” disse. So quanto è devastante non sentirsi ascoltati quando si vorrebbe urlare per tirare fuori ciò che avviene dentro di noi. Sentire un altro essere umano provare le stesse cose è triste ma allo stesso tempo rincuorante. Quando Mattia parla delle sue emozioni, le sento tutte. Come se le avesse raccontate lui per me.
Ecco, questa intervista è per tutte le persone che hanno bisogno di essere ascoltate, e per il mio caro amico Mattia, che ha molto da condividere con il mondo.
“Sono stato un bambino che ha sofferto e che non ha avuto un adulto che lo aiutasse a tradurre le emozioni che provava. Ero incapace di esprimermi e non riuscivo a rivedermi in nessuna delle persone che avevo attorno. Mi sento tuttora così, ma grazie ai viaggi e ad un percorso di diversi anni con la psicologa sto riuscendo a capire sempre meglio quale sia la mia strada.”
Il viaggio come strumento per entrare in connessione con sé stessi, mettersi alla prova e crescere
“Viaggiare ti da la possibilità di cambiare contesti e stili di vita molto spesso. Questo ti porta a fare un lavoro introspettivo enorme, anche se bisogna dire che a volte è molto difficile il mettersi costantemente in dubbio.”
“La voglia di viaggiare credo sia nata per puro istinto di sopravvivenza. Ho avuto momenti di crisi a diverse età, ma verso i miei 18 anni ero arrivato al culmine. Il mio malessere cresceva sempre più e la voce che mi gridava che quella vita non era degna di essere vissuta si faceva sempre più pressante. Ho avuto paura. È proprio in quel momento che la mia mente ha iniziato a sfornarmi mille idee pur di farmi scappare da quella situazione. Una di queste era proprio quella di partire per un viaggio.
Pochi mesi dopo stavo scrollando su Facebook e mi sono imbattuto su un viaggio di gruppo on the road negli Stati Uniti. Mi sono iscritto subito.
Il destino ha voluto mettermi in camper con Edoardo – uno dei due coordinatori del gruppo – che aveva avuto un passato altrettanto intenso. Ho passato quei 10 giorni di viaggio ascoltandolo e poi martellandolo con le mie storie nella speranza di essere capito. Per la prima volta nella vita riuscivo a rivedermi nella storia di qualcun altro. Da quel momento in poi, partire per un viaggio è sempre stato più facile che rimanere nella sicurezza – che tanta sicurezza non era – di casa.”
Viaggiare per affrontare le proprie fragilità: il viaggio in bici di Mattia
“Potrei dire che il viaggio in bici sia stata una pura ricerca d’avventura – che in parte sarebbe anche vero – ma devo ammettere che quella non è stata l’unica motivazione. Uno dei motivi che mi hanno spinto a usare proprio quel mezzo era il desiderio di rallentare tutto il mondo intorno a me, costringendomi ad un grande lavoro d’introspezione, ma anche – e soprattutto – volevo dimostrare a me stesso e agli altri che io ero in grado di fare qualcosa di grande e diverso da ciò che le persone comuni fanno nell’arco della loro vita. Volevo differenziarmi. O forse volevo solo che le persone mi notassero? Probabilmente entrambe.”
Mattia, dopo 10 settimane di lavoro in Australia con il WHV, decide di intraprendere un viaggio in bici. Un viaggio da Port Douglas fino Sydney, più di 2000 km, ma che al di là della distanza fisica ha permesso al nostro viaggiatore di conoscersi a livelli profondi come mai prima. Questo per lui è stato un viaggiare per affrontare le proprie fragilità, accettarle e raccontarle agli altri, con estremo coraggio.
“È stato il mio primo viaggio in bici e prima d’allora non avevo nemmeno mai dormito in tenda, perciò sono stati settanta giorni estenuanti sia fisicamente che mentalmente. Ho passato una miriade di nottatacce dovute alla paura di aver sbadatamente montato la tenda sul terreno di qualcuno o al rumore di qualche animale che camminava intorno alla mia tenda a notte fonda. Per tre volte sono stato ad un paio di metri dal serpente Bruno – che è considerato tra i più velenosi al mondo – e che con un morso ti riesce ad uccidere in tempo di mezz’ora. L’unica cosa che mi veniva veramente facile era stare in sola compagnia di me stesso. Non ho avuto alcun momento di crisi dovuto a questo, anzi, forse è proprio ciò che mi ha salvato.”
Proprio tutte queste difficoltà mettono alla prova chiunque. Eppure, a seconda di come reagiamo possiamo cambiare la nostra storia. Possiamo fuggire o restare. Restare significa ascoltarsi, rassicurarsi, accettare tutto ciò che affiora da dentro. Questo non è facile, specie se si è cresciuti trascurando le proprie emozioni, trattandole come ospiti indesiderati.
“Ricordo molto bene quando durante una seduta online con la psicologa – nella mia piccola tenda nel mezzo della natura australiana – le parlavo di come ero fiero del fatto che stavo riuscendo ad accettare tutte le mie emozioni, accettarle e poi comportarmi in base ai miei bisogni senza giudicarli. Poi d’un colpo mi sono fermato, ho sorriso e ho detto “sto diventando papà di me stesso!”.
Non stavo più aspettando che qualcuno validasse i miei bisogni. Ero io stesso che lo stavo facendo. Questo è stato il regalo più bello che il viaggio in bici mi ha fatto.”
Mostrarsi vulnerabili è l’unico modo per sentirsi meno soli e trovare i propri simili
Mostrarsi vulnerabili raccontando delle proprie fragilità non è mai semplice. Tuttavia, il desiderio di mostrarsi forti e capaci per sentirsi accettati e ammirati, è spesso controproducente. Anziché sentirci più amati, ci sentiamo più soli. Raccontare ciò che avviene nel proprio cuore è invece un modo per attirare persone simili a noi, che condividono pene simili e che ci fanno sentire compresi. Ed è proprio ciò che ha fatto Mattia: ha iniziato a viaggiare per affrontare le proprie fragilità per poi raccontarle senza filtri.
“Come ho detto all’inizio, ciò che più mi ha salvato è stato riuscire a rivedermi nei racconti di qualcun altro. Il primo è stato Edoardo, ma poi mi sono imbattuto sui profili di Antonio Di Guida, Carlo Taglia e molti altri.
Il loro modo di raccontarsi a cuore aperto mi stava facendo scoprire cose di me stesso a cui mai avevo pensato. Proprio per questo motivo ora uso i social per espormi e parlare apertamente delle mie emozioni cercando di cadere il meno possibile negli stereotipi. Tra scrittura, revisione e mille correzioni non spendo mai meno di tre o quattro ore per ogni post che pubblico.
Non voglio far parte di quelli che si mostrano invincibili al solo scopo di alimentare il proprio ego. Quel tipo di contenuti non fanno altro che alimentare la sensazione di insoddisfazione ed inadeguatezza nei lettori. Quando ho finito di leggere il libro “Australia” di Antonio, la prima cosa che ho pensato è stata “Lo posso fare anche io!”. Ed così è stato. Un mese dopo avevo già il biglietto di sola andata in mano.
“Persone come Antonio hanno aiutato me, ora sento di voler fare lo stesso a mia volta. Ad ogni pensiero che scrivo, immagino che dall’altra parte dello schermo ci possa essere un altro Mattia bambino e l’ultima cosa che voglio fare è farlo sentire inadatto. Non sempre è facile. Qualche volta è inevitabile cadere in stereotipi, ma m’impegno ad essere il più genuino possibile e dare la possibilità a chi legge di rivedersi in dei concetti e di riconoscere delle emozioni che magari prova ma che fa fatica a tradurre.
In poche parole, vorrei solo che chi leggesse le mie parole possa sentirsi meno solo e più in grado di fare esperienze fuori dal comune.”