Si sente spesso l’affermazione “i giovani non hanno voglia di lavorare“: lo si sente dal vicino di casa, dai genitori, dall’anziano in fila alle poste per la pensione, dalla televisione.
Ma è vero? Perché così tante persone delle generazioni vissute prima del boom economico degli anni ’60 ha questa convinzione?
Ciò che manca, è un reale confronto tra le nuove generazioni e quelle più anziane. Non si ha modo di ascoltarsi e cercare di comprendere, perché c’è sempre un grande problema di comunicazione, specie tra età diverse.
Per capire, occorre riflettere su ciò che è il lavoro, cosa rappresentasse anni fa e come veniva (e ancora viene) vissuto, e la visione che hanno ora sempre più giovani.
Il lavoro visto dalle generazioni prima del boom economico
Il lavoro è per l’essere umano essenziale per diversi motivi, e si può esprimere in diverse maniere. Esistono molte forme e tipologie di attività lavorativa, e la sua visione nel tempo è cambiata, ed è in costante cambiamento.
Se pensiamo a cosa rappresentasse il lavoro nell’età preistorica, è molto diverso da come è visto e vissuto oggi.
Per le generazioni che vengono da prima degli anni ’70/’80 del secolo scorso, è molto diffusa la convinzione che i giovani non hanno voglia di lavorare.
Questo perché hanno vissuto in un’epoca dove la povertà era più diffusa e la qualità di vita peggiore. Ottenere un lavoro era più semplice, sì, ma il salario minimo e un monte ore massimo settimanale era cose lontane.
Avere un lavoro sicuro, qualunque esso fosse, che permettesse alle persone di sopravvivere, era considerato sacro. Non c’era la possibilità di scelta per molte famiglie, e non ci si poteva permettere di prendere del tempo per decidere.
Ovviamente, crescendo in un tale contesto, viene normale pensare, e insegnare ai propri figli, che la cosa più importante nella vita è un lavoro sicuro. E che si tende a vedere qualunque persona che sceglie il lavoro con più coscienza come una persona che non ha voglia, che fa la schizzinosa.
La nuova visione del lavoro da parte dei giovani
Grazie ad un insieme di fattori, negli ultimi anni abbiamo visto una grande presa di coscienza a livello collettivo.
Ora ci si chiede “ma ne vale la pena?” prima di investire tempo ed energie in un’attività che non ci dà abbastanza, riconoscendo il vero valore di sé stessi, del proprio tempo, della propria vita.
Ecco che il risultato è sempre più persone che decidono di licenziarsi da lavori frustranti, e che decidono con maggior consapevolezza cosa fare.
Insomma, non si accontentano di un lavoro solo per avercelo, ma hanno capito che il proprio tempo è limitato, e passarlo facendo ciò che ci rende infelici, equivale a sprecarlo. Al giorno d’oggi molte persone capiscono che vivere stressati per via di un lavoro che risucchia energie, non è normale e non è sano.
Se prima si aveva bisogno di un lavoro per sopravvivere dalla povertà, ora si ha sempre più bisogno di riequilibrare la propria vita per sopravvivere allo stress.
Le persone quindi desiderano riappropriarsi della propria esistenza, e valorizzarla, utilizzando la libertà personale, svincolandosi dal concetto di produttività.
Perciò nascono vie alternative, persone che si reinventano, persone che iniziano a viaggiare alla scoperta di loro stesse e altre realtà.
Tutto ciò non ha nulla di negativo: è la normale conseguenza di un sistema che riduce le persone a macchine produttive.
Proprio come ci racconta Antonio attraverso il suo viaggio descritto nel suo libro “La strada verso casa“, scegliere una vita autentica, che ci rende felici, dovrebbe essere la nostra priorità, sopra qualsiasi aspettativa degli altri e della società. Dovremmo valorizzare il nostro tempo nel modo che preferiamo, perché la vita non deve essere fatta di sofferenze inutili.
Quindi i giovani non hanno voglia di lavorare?
Certo che no! Prima di tutto, si tratta di una generalizzazione, uno stereotipo estremamente falso e pericoloso.
Poi, non è vero che non si ha voglia più di lavorare rispetto ad un tempo. La voglia di lavorare c’è, ma non alle condizioni che una volta venivano accettate passivamente.
In una intervista, il filosofo e psicoanalista Professor Umberto Galimberti ha condiviso la sua idea sull’argomento:
“Si ha l’impressione che i giovani non abbiano come unico scopo della loro esistenza il profitto, il denaro – che è diventato valore simbolico di tutti i valori oggi e della nostra cultura – e abbiano iniziato a pensare alla qualità della loro esistenza. E vedere un po’ che mettendo vicino la qualità della loro esistenza e quella vita stressante – perché oggi noi viviamo non più nel tempo ma nella velocizzazione del tempo, dove i valori sono l’efficienza e la produttività – in un contesto di questo genere uno non si sente neanche più un uomo! […] I giovani si rifiutano a questa concezione: perché devo essere qualificato solo dal punto di vista del servizio e mai individuato come persona? […] Ma come fai a incoraggiarli (i dipendenti) se il concetto è di visualizzarli non per quello che sono ma per quello che servono? A questo punto, si rifiutano di essere schiavi”
Non è, quindi, che i giovani non hanno voglia di lavorare: non hanno voglia di essere sfruttati. Non hanno voglia di dedicare tempo ed energie senza essere riconosciuti per il proprio valore.
Non hanno voglia di accontentarsi di un ruolo che non li valorizza e li vede come un ingranaggio di una grande macchina che si dimentica dei loro bisogni, della loro esistenza.